domenica 31 maggio 2020

Utopia o mito? -Step#19

Devo ammettere che non è facile immaginare qual è la differenza tra utopia e mito. Per un'analisi più attenta mi sono affidato al dizionario online Treccani che cito:

"utopìa s. f. [dal nome fittizio di un paese ideale, coniato da Tommaso Moro nel suo famoso libro Libellus ... de optimo reipublicae statu deque nova Insula Utopia (1516), con le voci greche οὐ «non» e τόπος «luogo»; quindi «luogo che non esiste»]. – 1. Formulazione di un assetto politico, sociale, religioso che non trova riscontro nella realtà ma che viene proposto come ideale e come modello; il termine è talvolta assunto con valore fortemente limitativo (modello non realizzabile, astratto), altre volte invece se ne sottolinea la forza critica verso situazioni esistenti e la positiva capacità di orientare forme di rinnovamento sociale (in questo senso utopia è stata contrapposta a ideologia)."

Utopia, Thomas More.


L’utopia non è speranza, né significa pensare a ciò che possa essere nella sua integrità perfetto poiché l’idea di perfezione è già frutto della speranza di reintegrazione di una condizione passata ritenuta ottimale. Solo attraverso i miti questa idea di perfezione vuole rivivere la condizione originaria, consentendole di farla emergere anche nei tempi odierni. Tuttavia, se il mito è sogno dell’immaginazione che guarda al passato, l’utopia è rappresentata dalla ragione che fa riferimento all’età futura. Le utopie moderne riguardano città ideali concepite su un piano razionale, nate durante l’età della ragione e nel momento in cui entra in crisi il millenarismo. La realizzazione dell’utopia avviene attraverso la personificazione dell’anima e quest’ultima non si fonda sulla speranza di un paradiso, ma su un incremento della conoscenza. Ha pertanto origine dalla scienza e consente all’uomo di uscire dalla condizione di “ferinità” per accedere ad una società migliore. L’utopia è dunque il sogno dell’età della ragione, di una umanità uscita dal Medioevo che pone tutte le proprie speranze nello sviluppo della ragione. Il mito fa riferimento al passato, mentre l’utopia è completamente rivolta al futuro, in cui bisogna raggiungere una condizione di progresso.
Francis Bacon

Per tale motivo, un filosofo come Francis Bacon non fu un rivoluzionario per le concezioni scientifiche, ma lo fu perchè immaginò una società utopica governata dai sapienti, ovvero da coloro che si dedicavano alla conoscenza delle caratteristiche della natura, affinchè quest’ultima si mettesse a servizio dell’uomo.

Possiamo parlare di utopia all’interno della società? Il socialismo è la massima espressione di questa concezione di perfezione, secondo cui ciascuno che ricopre un ruolo ben preciso ha il compito di restare al proprio posto per una nuova finalità generale. L’utopia infatti, come già detto, non deve prospettare un ritorno ad uno stato originario, ma descrivere uno stato o una condizione storica alternativa. Quest’ultima esiste all’interno della società che crede in se stessa e nelle possibilità della ragione umana e della rivoluzione futura. Una società che vede il futuro come pericolo tende a guardare indietro, e quindi verso il mito, considerato come un ricordo nostalgico, risalente all’età dell’oro.
Oggi non si scrivono più utopie ma “distopie”, perché ci chiediamo. La risposta arriva da una conferenza del professore Francesco Coniglione
"Perchè noi non crediamo più nelle capacità dell’uomo e nella costruzione di un futuro mediante il solo utilizzo della ragione”
Francesco Coniglione,
presidente nazionale della Società Filosofica Italiana.


Fonti:


venerdì 29 maggio 2020

Mito nel contemporaneo -Step#18

Nella stesura di questo mio blog ho affrontato l'idea di mito nei vari secoli. Ho iniziato facendo una ricerca all'interno della dimensione mitologica, poi ho analizzato la filosofia classica ed in particolare quella di Platone, successivamente mi sono incuriosito sul mondo medievale e moderno.
Arriviamo dunque all'era più vicina a noi: l'epoca contemporanea.
Seppur abbiamo già analizzato l'idea di mito di personaggi contemporanei come: Borges, Pavese, De Chirico, vorrei snocciolare ulteriormente l'idea di mito allargando gli orizzonti, alla ricerca di un senso più comune.
In ordine da in alto a sx, Jorge Luis Borges,
Cesare Pavese, Giorgio De Chirico.

I miti dell'uomo contemporaneo hanno, per cominciare, un'essenza molto diversa da quelli dell'uomo arcaico. Come aveva argomentato nel 1957 il semiologo Roland Barthes (Miti d'oggi - Einaudi), il mito, per l'uomo contemporaneo, non è che una 'parola', vale a dire solo un sistema di comunicazione. Scriveva Barthes (p.191):

"Tutto dunque può essere mito? Sì, a mio avviso, perchè l'universo è infinitamente suggestivo. Ogni oggetto del mondo può passare da un'esistenza chiusa, muta, ad uno stato orale, aperto all'approvazione della società, perchè non c'è alcuna legge, naturale o no, a impedire che si parli delle cose."

Ecco perchè in un'epoca dominata dalla scienza, dalla tecnologia, dall'economia e dalla finanza, 'parole' provenienti dal lessico di quelle discipline possono rivestirsi di un'aura mitica ed entrare a far parte del lessico quotidiano svuotate del loro significato specifico e utili solo a riempire le più vuote conversazioni nei nostri salotti o in quelli televisivi. Di queste parole di plastica ha scritto il linguista Uwe Pörksen, evidenziando la degenerazione del linguaggio nelle società industrializzate della seconda metà del Novecento.

Uwe Pörksen

L'esigenza che ha spinto l'uomo arcaico a creare il mito originario, vale a dire quella di dare un senso al proprio mondo, non è morta nell'uomo contemporaneo ma si esprime in forme nuove, molto diverse da quelle del mito originario.

Il mito originario risponde a una pressante esigenza umana: quella di attribuire un senso alla propria esistenza col ricorso a narrazioni in grado di dar forma al caos. La 'richiesta di senso' nella società odierna fa sì che essa sia assediata da personaggi, fenomeni, eventi che vengono chiamati impropriamente mitici.
A tal proposito Michele Cogo afferma nel suo libro "Fenomenologia di Umberto Eco":


"Il mito è un fenomeno che si è verificato su scala globale nell'antichità, un linguaggio simbolico attraverso cui l'uomo crea una struttura interpretativa e un ordine al mondo dal punto di vista cosmologico, sociale, nonchè politico e materiale. Per cui è importante un approccio storico al fenomeno del mito, per collocarlo in un contesto storico-culturale di una certa fase della storia dell'umanità e per capire che ogni utilizzo contemporaneo del termine 'mito' non ha - e non può avere - lo stesso significato originario."











Fonti:

martedì 19 maggio 2020

ABBECE...mito! -Step#17



A. Archetipo

B. Bios

C. Creazione
D. Demiurgo
E. Esiodo
F. Falso
G. Giustizia
H. Hellas
I. Istinto
L. Logos
M. Musa
N. Nascita
O. Origine
P. Profezia
Q. Qualità
R. Ricordo
S. Simbolo
T. Testimone
U. Usanza
V. Verità
Z. Zarathustra

sabato 16 maggio 2020

Testimonial mitico -Step#16

Nella scrittura di questo blog ho imparato insieme a voi come da un singolo termine possano svilupparsi tante strade, come i raggi di una ruota di bicicletta. Volendo però risalire il fiume del logos mitico, il mio limite conoscitivo non riesce a sconfiggere le correnti che nascondono il vero. Per questo devo fare affidamento ad uno di quei lanternoni pirandelliani che illuminano la retta via.
Ed ecco che con questo obiettivo salgo sul groppone del caro Jorge Luis Borges - già citato in un post precedente - e mi faccio trasportare verso il vero sul mito.

Jorge Luis Borges

Se pensiamo al mito, dove proiettiamo la nostra mente? Il nostro cervello si catapulterebbe in luoghi e tempi remoti, tali da giustificare certe immagini dionisiacamente irrazionali. Su questa ricerca interiore verso il proprio io più intimo e arcaico riflette Borges. 

Lo scrittore argentino individua, quindi, nella poesia e la letteratura in generale - prodotti dell'animo umano - una struttura ed un linguaggio non comuni. Queste comunicano attraverso dei fattori che riflettono degli archetipi interiori. Borges fa riferimento ad un esempio per tutti: l'Ode all'usignuolo di John Keats.

 


Il cuore si strugge ed un sonnolento torpore
affligge i sensi, come se ebro di cicuta,
o d’un sonnifero pesante trangugiato
pochi istanti fa, fossi affondato nel Lete:
è non certo per invidia della tua felice sorte,
ma troppo felice nella tua felicità.
Tu, arborea driade dalle lievi piume,
che in una macchia melodiosa
di faggi verdi e sparsa d’ombre innumerevoli
canti l’estate la felicità a gola spiegata.


O per un sorso di vino! Che sia stato
rinfrescato da secoli nelle profondità sotterranee,
sapido di Flora e di prati verdi,
di danza, di canti provenzali, d’allegria solare!
Oh, sì, bere una coppa colma di calore,
pregna di rosso, Ippocrene pura e sincera,
con rosari di bolle occhieggianti sull’orlo,
e la bocca macchiata di porpora;
sì, poter bere, e inosservato lasciare il mondo
per svanire, infine, con te, nelle foreste oscure.


Sparire, lontano, dissolvermi, e dimenticare poi
ciò che tu, tra le foglie, non hai mai conosciuto:
il languore, la malattia, l’ansia.
Qui dove gli uomini seggono e odon l’un l’altro gemere,
qui, dove il tremito scuote gli ultimi, scarsi capelli grigi,
dove la giovinezza impallidisce, si consuma
e spettrale muore,
dove il pensare stesso è riempirsi di dolore,
e la disperazione regna, dagli occhi di piombo,
dove la bellezza vede spenta la luce dallo sguardo
e il nuovo amore non riesce a struggersi oltre il domani.


Lontano! Lontano! e arrivare da te,
non portato da Bacco e dai suoi pargoli,
ma sulle invisibili ali della poesia,
anche se la mente, ottusa, si confonde e indugia:
già lì, con te, tenera è la notte,
con la sua luna regina sul trono
e le fate stellate tutt’intorno:
qui, invece, non c’è luce alcuna,
se non quella che dal cielo con la brezza spira
per verdeggianti tenebre e sinuosi sentieri di muschio.


Non vedo quali fiori siano ai miei piedi,
né che dolce incenso impenda sui rami,
ma nella profumata oscurità intuisco ogni soavità
di cui il mese propizio dota
l’erba, il boschetto e il selvaggio albero da frutta,
il biancospino e la pastorale Eglantina,
viole, presto appassite e sepolte tra le foglie;
e la figliuola maggiore di metà maggio:
la veniente rosa muschiata, dall’umore di vino di rugiada,
mormoreggiante dimora d’insetti nelle sere estive.


Nel buio ascolto, e ben molte volte
ho quasi desiderato la confortevole morte,
l’ho chiamata con soavi nomi in molte meditate rime,
l’ho pregata perché via si portasse nell’aria il mio respiro.
Or più che mai mi pare bene morire:
spegnersi a mezzanotte, senza alcun dolore,
mentre tu versi fuori l’anima
in tale estasi!
Tu canteresti ancora: ed io avrei orecchie invano,
al tuo alto requie divenuto una zolla.


Tu non nascesti per morire, tu, piuma immortale!
Le affannate generazioni non ti calpestano,
e la voce, che odo in questa fuggevole notte, fu udita
in antichi giorni da re e da villani:
forse è lo stesso canto che il sentiero trovò
nel cuore di Ruth, quando afflitta da nostalgia
ella stette in lagrime tra il grano straniero;
lo stesso, forse, che spesse volte ha
incantato magiche finestre, aperte sulla schiuma
di perigliosi mari, in fatate terre deserte.


Deserte! Come una campana risuona questa parola
che rintocca per ritrarmi da te alla mia solitudine!
Addio! La fantasia non può frodare così bene
com’ella ha fame di fare, ingannevole silfo.
Addio, addio. La tua antifona dolorosa svanisce
oltre i prati vicini, oltre la silenziosa corrente,
su per il colle per svanire appieno
tra i boschi della vicina valle.
È stato un sogno? O una visione?
Svanita è quella musica: dormo o son desto?

Il discorso sugli archetipi è strettamente connesso a quello del mythos, come è stato individuato dalla critica moderna della mitologia. Il mito è oggetto della poesia fin dalle origini della letteratura occidentale che noi facciamo risalire ad Esiodo ed Omero. Lo scrittore è per sua origine - afferma Borges - colui che avverte più degli altri la forza mitopoietica dei simboli, scaturenti dall'intimo e parla per archetipi, facenti parte della 'memoria collettiva'. 

A Borges non interessava tanto il sogno in se stesso, quanto la sua irruzione nella realtà. La storia è considerata «Un lungo sogno che si svolge attraverso i secoli» ed è probabile che non ci sia nessuno a sognarlo. È la somma ironia di Borges che edifica mondi dal nulla e, in un batter d’occhio, solvet saeclum in favilla. «Noi – scrisse – abbiamo sognato il mondo. L’abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, ubiquo nello spazio e stabile nel tempo; ma abbiamo ammesso nella sua architettura tenui ed eterni interstizi di assurdità per sapere che è falso». La storia è un lungo sonno mitico, ma questo non toglie che vi siano sogni ricorrenti. Spetta all’artista – e non allo storiografo – viverli in modo più lucido. Ebbene, continua Borges, i sogni ricorrenti della storia sono quelli che comunemente chiamiamo simboli, archetipi, verità antiche, eterne, ribadite di secolo in secolo, di generazione in generazione, che appartengono tutte ad una fase mitologica dell'uomo. 


«Come gli alchimisti / che cercarono la pietra filosofale / nel mercurio fuggitivo, / farò che le comuni parole / – carte segnate dal baro, moneta della plebe – / rendano la magia che fu la loro / quando Thor era il nume e lo strepito, / il tuono e la preghiera. / Nel dialetto di oggi / Dirò a mia volta le cose eterne».

 


È forse una delle immagini più efficaci del nostro Sé, il cui luogo naturale è un’origine non esiliata all’inizio dei tempi ma che è illud tempus, che si ripete ad ogni istante regalandoci il crisma dell’immortalità. È qui che sgorga la vera Arte, è qui che affondano le radici del Grande Stile. Nel corso dei secoli sono stati dati molti nomi a questo Altrove: «Gli antichi lo chiamavano la musa, gli ebrei lo spirito, e Yeats la Grande Memoria. La nostra mitologia contemporanea preferisce nomi meno belli, come subcoscienza, subcosciente collettivo e via dicendo, ma è sempre la stessa cosa». Ecco il punto: ogni epoca ha le proprie mitologie, ma Borges preferiva quelle antiche alle mistiche dell’inconscio di Freud (che aveva definito «un ciarlatano ossessionato dal sesso»), cui preferiva di gran lunga Carl Gustav Jung, a patto che venisse letto come un creatore di miti.

Freud e Jung

William Butler Yeats


Per Borges tutta la letteratura è fantastica, lo è sempre stata: «è cominciata con le cosmogonie, con le mitologie, con i racconti di dèi e di mostri». Tutte le filosofie e teologie sono ramificazioni di questo genere. Ne condividono gli archetipi e i simboli, modulandoli in base allo Spirito del Tempo. È per questo che «bisogna ritornare a questa tradizione fantastica che è la vera grande tradizione, la tradizione principale della letteratura; il resto è piuttosto giornalismo, sarà anche storia, ma non è letteratura». Tanto forte è la sua provocazione che considerava il realismo come un episodio funesto, che ha infestato qualche secolo ma ben presto tramonterà. La grande letteratura, ci dice Borges, non è mai stata realista, ha sempre parteggiato per i Don Chisciotte di tutti i tempi. Scrivere di letteratura fantastica significa emendare questo errore, tornare alla normalità:

«Io non sono affatto un innovatore, e […] non ho fatto altro che continuare quello che facevano gli arabi, che hanno inventato le Mille e una Notte, quello che faceva Shakespeare, e d’altra parte quello che faceva anche Dante».



Fonti:

https://www.anteremedizioni.it/postilla_poesia_mito_poetica_cervello_di_massimo_conese

https://www.900letterario.it/scrittori-del-900/borges-mito-logos/

venerdì 15 maggio 2020

I limiti dello sviluppo -Step#15

Nel 1972 uscì un libro considerato da alcuni profetico, da altri catastrofista. Il titolo italiano era I limiti dello sviluppo, un rapporto del Club di Roma, ovvero un'associazione di industriali, scienziati e giornalisti. Basandosi su (primitive, al tempo) simulazioni al computer, il libro raccontava lo stato del pianeta e delle risorse, della popolazione umana e dei sistemi naturali proiettati nel futuro.


In estrema sintesi, le conclusioni del rapporto furono:
  • Se l'attuale tasso di crescita della popolazione, dell'industrializzazione, dell'inquinamento, della produzione di cibo e dello sfruttamento delle risorse continuerà inalterato, i limiti dello sviluppo su questo pianeta saranno raggiunti in un momento imprecisato entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile sarà un declino improvviso ed incontrollabile della popolazione e della capacità industriale.
  • È possibile modificare i tassi di sviluppo e giungere ad una condizione di stabilità ecologica ed economica, sostenibile anche nel lontano futuro. Lo stato di equilibrio globale dovrebbe essere progettato in modo che le necessità di ciascuna persona sulla terra siano soddisfatte, e ciascuno abbia uguali opportunità di realizzare il proprio potenziale umano.
Il mito dell'ingegnere, in quanto scienziato positivista che fagocita il mondo per uno sviluppo esponenziale infrenabile, si scontra con la limitatezza delle risorse disponibili e con la lenta capacità rigenerativa del nostro pianeta. «Badate», dicevano gli autori, «che il pianeta è limitato, e lo sviluppo economico e soprattutto sociale non può proseguire molto a lungo senza andare a scontrarsi con i confini fisici del pianeta.» svelando il fatidico braccio di ferro tra Dedalo e Gaia.


Le catastrofi previste dal pool degli scienziati del Club di Roma, ricordano un po' una catastrofe finale, un'apocalisse, da ἀποκάλυψις (apokálypsis) termine greco che significa "rivelazione". Come il Club di Roma, attraverso però una «rivelazione» di tipo spiritico, l'apostolo Giovanni, ormai anziano, profetizza la fine del mondo.
Questo paragone non è privo di significato, ma invita - secondo il mio modesto parere - ad un'attenta riflessione riguardo alla reale concretezza di una catastrofe economico-sociale imminente. Se non prendiamo serie decisioni che rompano la tendenza all'estremo consumismo, l'immagine di qui sopra potrebbe allegoricamente avverarsi. 

Fonti:

sabato 9 maggio 2020

Ancora falsi miti d'oggigiorno -Step#14

"L'uomo è un animale che, in quanto tale, è mosso da istinti primordiali come la paura. In tempi moderni, la necessità di trovare una causalità negli eventi e contrastare il senso di sconforto che sorge di fronte all'ignoto, si è tradotta spesso nella ricerca di soluzioni facili a problemi di una certa complessità. Questa necessità umana è presto sfruttata da miserabili approfittatori che lucrano sfornando dozzine di falsi miti sotto la veste di fake news, o che semplicemente godono del caos causato da quest'ultime. [...]"
Roberto Speranza, attuale ministro della salute

Così io stesso affrontavo il tema delle fake news che affollano la cronaca moderna in un post precedente riguardo i falsi miti sul Covid-19.
Ahimé, nonostante il passare dei giorni, vi è tanta, troppa, disinformazione. Il fenomeno è di tale portata che il Ministero della salute italiano si è sentito in dovere - dopo 4 mesi dall'inizio del contagio - di ribadire delle ovvie considerazioni riguardo certe bufale sparse in giro: vi inserisco il link dell'articolo (clicca qui)
Vi sono però anche altri tipi di miti che le genti si raccontano ricordando i tempi andati con romanticismo. 



Il tema scottante attuale è sempre legato alla pandemia che stiamo vivendo, ma oggi ci si preoccupa di più per le conseguenze economiche. Tra le mille proposte dei politicanti che siedono tra i banchi dei parlamenti, ricorrente è stata quella della vanagloriosa idea di porre in atto un secondo Piano Marshall con finanziamenti europei.
È qui che la memoria si fonde con il mito.
Tralasciando la mia posizione critica nei confronti del fine degli aiuti americani post-guerra, come riporta il sole 24 ore - nota testata economica italiana -  in un articolo intitolato "La mitologia del Piano Marshall" di Mauro Campus, l'attuazione di un nuovo piano di aiuti di tale portata sembrerebbe impossibile:
"Le ipotesi di un piano per fronteggiare la crisi da coronavirus che ricalchi le aspirazioni globali dell’Erp - European Recovery Program (altresì detto Piano Marshall) - , per come negli ultimi giorni sono state richiamate prima dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel e poi dalla presidentessa della Commissione Ursula von der Leyen, descrivono un’ambizione priva di legami con la realtà. Il bilancio dell’Unione (circa l’1% del reddito nazionale lordo) è insufficiente per affrontare un programma simile a quello del 1948-1952, e una contrazione dei bilanci nazionali a favore del bilancio dell’Unione pare in questa fase una prospettiva lunare. Sarebbero dunque necessarie misure (e visioni) straordinarie."
Lungi da me inoltrarmi in affari economici data la mia ignoranza sul tema, ma è chiaro a tutti che ci siamo avviati verso un periodo di forte crisi finanziaria. A noi cittadini non resta altro che sperare che la nostra classe politica giochi bene le sue carte per salvare il salvabile.


Fonti:
http://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=4692
https://www.ilsole24ore.com/art/la-mitologia-piano-marshall-ADoFmlI

venerdì 8 maggio 2020

Antica ingegneria mitica -Step#13

Vivendo nel Bel paese, noi Italiani abbiamo la fortuna di poterci affacciare dai balconi delle nostre case e respirare la storia di antiche radici lontane. La linfa pulsante della cultura della quale siamo ereditari, però, non è più visibile, ma sono invece ben visibili le scatole, i prodotti, che contenevano o erano diretta conseguenza delle idee geniali degli italici antenati.
Tanto ingegno in illo tempore ci sembra impossibile: come potevano degli uomini con delle tecnologie così primitive, fare, costruire, ma anche solo immaginare opere di tale portata?
Ecco, è qui che inizia il nostro mito dell'ingegnere e dell'ingegneria, per cui dobbiamo svolgere un'indagine storiografica.

A rigore, un'ingegneria greco-romana antica non esiste. Esistevano ed erano oggetto di definizione e di trattazione specifica la meccanica, l'architettura e le discipline che insegnavano a costruire macchine da guerra (belopoietica), porti (limenopoietica), planetari (sferopoietica) e così via. Sia queste ultime discipline sia l'architettura erano spesso considerate branche della meccanica, anche se non manca tra gli antichi chi vedeva lo studio delle macchine piuttosto come parte dell'architettura o dell'arte del misurare.

Il termine moderno 'ingegnere' non ha un diretto equivalente nella cultura antica e non traduce in modo soddisfacente nessuno dei vocaboli che troviamo nelle fonti antiche: da mechanicus a technítēs (artefice), allo stesso architectus e dēmiourgós (artigiano, mastro). Da un lato, i responsabili della costruzione di navi o di macchine da guerra erano spesso chiamati 'architetti'; dall'altro lato, gli 'architetti' della cattedrale di Santa Sofia a Costantinopoli sono definiti da Procopio di Cesarea (500 ca.-560 ca.) mēchanikoí o mēchanopoioí (Aedificia I, 1, 24, 71, 76; II, 3, 11). Vi è un'intera gamma di espressioni (architéktōn, oikodómos, tektonikós) che denotano tutte la funzione di costruttore/architetto, e lo stesso si verifica per i costruttori e gli addetti dei dispositivi di irrigazione: téktones orgánōn (costruttori di strumenti), epistámenoi organízein (esperti di strumenti), mēchanárioi, mēchanoúrgoi (meccanici). 
L'ingegnere antico sarebbe quindi una figura al crocevia tra tutti questi campi (per i quali esisteva una notevole tradizione scritta) e altre forme di conoscenza, presenti soprattutto nella cultura orale e identificabili come téchnai o artes: pittura, falegnameria, lavorazione dei metalli, ecc.
Pur tenendo presente che gli architetti, con molta probabilità, erano impiegati anche come 'ingegneri' e viceversa, rimane poco chiaro quali esattamente fossero le distinzioni tra un ruolo e l'altro. Spesso queste distinzioni sembrano indicare differenze di prestigio e status e connotare, per esempio, la collocazione di un certo individuo nella gerarchia decisionale e amministrativa relativa alla costruzione di un'opera pubblica.
Ma vediamo, dunque, alcuni esempi fotografici di quali grandi opere è stato capace di costruire il mitico ingegnere del passato:

Grande muraglia cinese
Piramide di Giza
Le strade romane
Armi d'assedio











Acquedotto di Segovia





















Fonti:

venerdì 1 maggio 2020

Il moderno e il mito -Step#12

In epoca classica - abbiamo visto con Platone - il mito era parte integrante del pensare quotidiano, non ci si poteva discostare da esso nonostante il chiaro passaggio che gli antichi avevano fatto dal mythos al logos. In epoca moderna, invece, l'uomo partecipò a diverse rivoluzioni culturali, come quella scientifica, che lo portarono verso una razionalizzazione della vita.
Questo nuovo spunto culturale va in netto disaccordo con la mitologia e il mito, poiché questi presuppongono di per sé un'indagine metafisica della realtà in contrasto con il metodo scientifico. 
Allora che ne è del mito? Come abbiamo visto già in vari post - citando Borges o facendo un'indagine filologica del termine - la sua esistenza è strettamente legata all'uomo in maniera imprescindibile.


Giambattista Vico
Giambattista Vico è il primo pensatore moderno che avvia una riflessione sul mito in una prospettiva storico-antropologica. È con Vico che la riflessione sul mito si attesta a un livello ulteriore e inaugura una prospettiva storico-antropologica. Ne "La scienza nuova" il mito, ancorché completo nella propria espressione, è considerato come momento precedente e involuto rispetto alla riflessione razionale. La comprensione mitica segna una fase autonoma, non complementare o superiore rispetto alla ragione.
Vico ha intenzione di usare la filologia per indagare sui primordi dell’umanità, cioè per costruire, analizzando la maniera in cui si esprimevano gli uomini antichi, la trama ideale della nostra storia. Il filosofo comincia, per questo, dallo studio dei miti, gli scritti di quelle popolazioni che iniziarono ad avere, per la prima volta, vera confidenza con la scrittura; coloro che impararono a mettere per inscritto, seppur in maniera semplicistica, i loro pensieri. Facendo ciò, vuole mettere in evidenza un assunto che per molti sarebbe da scartare a priori, forse non proprio giustamente: la mitologia non è il frutto di pochissimi uomini di genio, ma di interi popoli antichi, i quali comunicavano con un linguaggio poetico, proprio con quel linguaggio che si trova in quei racconti fantasiosi.
Vico, infatti, scrive che il mito si esprime in favole che sono «maniera di pensare d’intieri popoli […] ne’ tempi della loro maggior barbarie»; e che precedono la ragione: «la mente umana, la qual è indiffinita, essendo angustiata dalla robustezza de’ sensi, non può altrimente celebrare la sua presso che divina natura che con la fantasia» (Scienza nuova, III, sez. 2, cap. 5, 4-6).