sabato 16 maggio 2020

Testimonial mitico -Step#16

Nella scrittura di questo blog ho imparato insieme a voi come da un singolo termine possano svilupparsi tante strade, come i raggi di una ruota di bicicletta. Volendo però risalire il fiume del logos mitico, il mio limite conoscitivo non riesce a sconfiggere le correnti che nascondono il vero. Per questo devo fare affidamento ad uno di quei lanternoni pirandelliani che illuminano la retta via.
Ed ecco che con questo obiettivo salgo sul groppone del caro Jorge Luis Borges - già citato in un post precedente - e mi faccio trasportare verso il vero sul mito.

Jorge Luis Borges

Se pensiamo al mito, dove proiettiamo la nostra mente? Il nostro cervello si catapulterebbe in luoghi e tempi remoti, tali da giustificare certe immagini dionisiacamente irrazionali. Su questa ricerca interiore verso il proprio io più intimo e arcaico riflette Borges. 

Lo scrittore argentino individua, quindi, nella poesia e la letteratura in generale - prodotti dell'animo umano - una struttura ed un linguaggio non comuni. Queste comunicano attraverso dei fattori che riflettono degli archetipi interiori. Borges fa riferimento ad un esempio per tutti: l'Ode all'usignuolo di John Keats.

 


Il cuore si strugge ed un sonnolento torpore
affligge i sensi, come se ebro di cicuta,
o d’un sonnifero pesante trangugiato
pochi istanti fa, fossi affondato nel Lete:
è non certo per invidia della tua felice sorte,
ma troppo felice nella tua felicità.
Tu, arborea driade dalle lievi piume,
che in una macchia melodiosa
di faggi verdi e sparsa d’ombre innumerevoli
canti l’estate la felicità a gola spiegata.


O per un sorso di vino! Che sia stato
rinfrescato da secoli nelle profondità sotterranee,
sapido di Flora e di prati verdi,
di danza, di canti provenzali, d’allegria solare!
Oh, sì, bere una coppa colma di calore,
pregna di rosso, Ippocrene pura e sincera,
con rosari di bolle occhieggianti sull’orlo,
e la bocca macchiata di porpora;
sì, poter bere, e inosservato lasciare il mondo
per svanire, infine, con te, nelle foreste oscure.


Sparire, lontano, dissolvermi, e dimenticare poi
ciò che tu, tra le foglie, non hai mai conosciuto:
il languore, la malattia, l’ansia.
Qui dove gli uomini seggono e odon l’un l’altro gemere,
qui, dove il tremito scuote gli ultimi, scarsi capelli grigi,
dove la giovinezza impallidisce, si consuma
e spettrale muore,
dove il pensare stesso è riempirsi di dolore,
e la disperazione regna, dagli occhi di piombo,
dove la bellezza vede spenta la luce dallo sguardo
e il nuovo amore non riesce a struggersi oltre il domani.


Lontano! Lontano! e arrivare da te,
non portato da Bacco e dai suoi pargoli,
ma sulle invisibili ali della poesia,
anche se la mente, ottusa, si confonde e indugia:
già lì, con te, tenera è la notte,
con la sua luna regina sul trono
e le fate stellate tutt’intorno:
qui, invece, non c’è luce alcuna,
se non quella che dal cielo con la brezza spira
per verdeggianti tenebre e sinuosi sentieri di muschio.


Non vedo quali fiori siano ai miei piedi,
né che dolce incenso impenda sui rami,
ma nella profumata oscurità intuisco ogni soavità
di cui il mese propizio dota
l’erba, il boschetto e il selvaggio albero da frutta,
il biancospino e la pastorale Eglantina,
viole, presto appassite e sepolte tra le foglie;
e la figliuola maggiore di metà maggio:
la veniente rosa muschiata, dall’umore di vino di rugiada,
mormoreggiante dimora d’insetti nelle sere estive.


Nel buio ascolto, e ben molte volte
ho quasi desiderato la confortevole morte,
l’ho chiamata con soavi nomi in molte meditate rime,
l’ho pregata perché via si portasse nell’aria il mio respiro.
Or più che mai mi pare bene morire:
spegnersi a mezzanotte, senza alcun dolore,
mentre tu versi fuori l’anima
in tale estasi!
Tu canteresti ancora: ed io avrei orecchie invano,
al tuo alto requie divenuto una zolla.


Tu non nascesti per morire, tu, piuma immortale!
Le affannate generazioni non ti calpestano,
e la voce, che odo in questa fuggevole notte, fu udita
in antichi giorni da re e da villani:
forse è lo stesso canto che il sentiero trovò
nel cuore di Ruth, quando afflitta da nostalgia
ella stette in lagrime tra il grano straniero;
lo stesso, forse, che spesse volte ha
incantato magiche finestre, aperte sulla schiuma
di perigliosi mari, in fatate terre deserte.


Deserte! Come una campana risuona questa parola
che rintocca per ritrarmi da te alla mia solitudine!
Addio! La fantasia non può frodare così bene
com’ella ha fame di fare, ingannevole silfo.
Addio, addio. La tua antifona dolorosa svanisce
oltre i prati vicini, oltre la silenziosa corrente,
su per il colle per svanire appieno
tra i boschi della vicina valle.
È stato un sogno? O una visione?
Svanita è quella musica: dormo o son desto?

Il discorso sugli archetipi è strettamente connesso a quello del mythos, come è stato individuato dalla critica moderna della mitologia. Il mito è oggetto della poesia fin dalle origini della letteratura occidentale che noi facciamo risalire ad Esiodo ed Omero. Lo scrittore è per sua origine - afferma Borges - colui che avverte più degli altri la forza mitopoietica dei simboli, scaturenti dall'intimo e parla per archetipi, facenti parte della 'memoria collettiva'. 

A Borges non interessava tanto il sogno in se stesso, quanto la sua irruzione nella realtà. La storia è considerata «Un lungo sogno che si svolge attraverso i secoli» ed è probabile che non ci sia nessuno a sognarlo. È la somma ironia di Borges che edifica mondi dal nulla e, in un batter d’occhio, solvet saeclum in favilla. «Noi – scrisse – abbiamo sognato il mondo. L’abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, ubiquo nello spazio e stabile nel tempo; ma abbiamo ammesso nella sua architettura tenui ed eterni interstizi di assurdità per sapere che è falso». La storia è un lungo sonno mitico, ma questo non toglie che vi siano sogni ricorrenti. Spetta all’artista – e non allo storiografo – viverli in modo più lucido. Ebbene, continua Borges, i sogni ricorrenti della storia sono quelli che comunemente chiamiamo simboli, archetipi, verità antiche, eterne, ribadite di secolo in secolo, di generazione in generazione, che appartengono tutte ad una fase mitologica dell'uomo. 


«Come gli alchimisti / che cercarono la pietra filosofale / nel mercurio fuggitivo, / farò che le comuni parole / – carte segnate dal baro, moneta della plebe – / rendano la magia che fu la loro / quando Thor era il nume e lo strepito, / il tuono e la preghiera. / Nel dialetto di oggi / Dirò a mia volta le cose eterne».

 


È forse una delle immagini più efficaci del nostro Sé, il cui luogo naturale è un’origine non esiliata all’inizio dei tempi ma che è illud tempus, che si ripete ad ogni istante regalandoci il crisma dell’immortalità. È qui che sgorga la vera Arte, è qui che affondano le radici del Grande Stile. Nel corso dei secoli sono stati dati molti nomi a questo Altrove: «Gli antichi lo chiamavano la musa, gli ebrei lo spirito, e Yeats la Grande Memoria. La nostra mitologia contemporanea preferisce nomi meno belli, come subcoscienza, subcosciente collettivo e via dicendo, ma è sempre la stessa cosa». Ecco il punto: ogni epoca ha le proprie mitologie, ma Borges preferiva quelle antiche alle mistiche dell’inconscio di Freud (che aveva definito «un ciarlatano ossessionato dal sesso»), cui preferiva di gran lunga Carl Gustav Jung, a patto che venisse letto come un creatore di miti.

Freud e Jung

William Butler Yeats


Per Borges tutta la letteratura è fantastica, lo è sempre stata: «è cominciata con le cosmogonie, con le mitologie, con i racconti di dèi e di mostri». Tutte le filosofie e teologie sono ramificazioni di questo genere. Ne condividono gli archetipi e i simboli, modulandoli in base allo Spirito del Tempo. È per questo che «bisogna ritornare a questa tradizione fantastica che è la vera grande tradizione, la tradizione principale della letteratura; il resto è piuttosto giornalismo, sarà anche storia, ma non è letteratura». Tanto forte è la sua provocazione che considerava il realismo come un episodio funesto, che ha infestato qualche secolo ma ben presto tramonterà. La grande letteratura, ci dice Borges, non è mai stata realista, ha sempre parteggiato per i Don Chisciotte di tutti i tempi. Scrivere di letteratura fantastica significa emendare questo errore, tornare alla normalità:

«Io non sono affatto un innovatore, e […] non ho fatto altro che continuare quello che facevano gli arabi, che hanno inventato le Mille e una Notte, quello che faceva Shakespeare, e d’altra parte quello che faceva anche Dante».



Fonti:

https://www.anteremedizioni.it/postilla_poesia_mito_poetica_cervello_di_massimo_conese

https://www.900letterario.it/scrittori-del-900/borges-mito-logos/

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