martedì 7 aprile 2020

Anche poesia -Step#07

La mitologia va da sempre a braccetto con la poesia. Infatti, sebbene abbiamo anche visto un esempio prosastico di mito, il mito per sua natura è un componimento tipicamente poetico. Ci basti pensare agli aedi e rapsodi greci che cantavano le gesta del Pelide Achille o chi per lui; ma anche successivamente con i bardi medievali e così via... Tutti questi personaggi dovevano immagazzinare migliaia di storie nel loro repertorio, che altrimenti non avrebbero potuto ricordare, se non con formule poetiche, che assemblavano come puzzle nelle loro narrazioni a seconda della necessità.

Un aedo dell'antica Grecia

Secondo J.L. Borges, la poesia comunica attraverso dei fattori che riflettono degli archetipi interiori. Il discorso sugli archetipi è strettamente connesso a quello del mythos: il mito è oggetto della poesia fin dalle origini della letteratura occidentale che noi facciamo risalire ad Esiodo ed Omero. La poesia è il linguaggio archetipico dell'uomo.




Il poeta è per sua origine colui che avverte più degli altri la forza mitopoetica dei simboli scaturenti dall'intimo, e che parla per archetipi facenti parte della 'memoria collettiva'. Il recupero degli archetipi appare la funzione primaria del poeta. Platone parla di 'invasamento divino' che possiede i poeti e li fa comporre: la poesia è "una mania proveniente dalle Muse" (Ione, 533e-536b; Fedro, 245a).

Cesare Pavese
Cesare Pavese, invece, indagando su questo archetipo umano del fare mitologia scrisse: "Ma non è da credere che in sé quest’esperienza del mito sia un privilegio dei poeti e, a un grado più discosto, dei pensatori. È un bene universalmente umano, è la religione che sopravvive anche nei cuori più squallidi o più meschini, i quali sarebbero ben stupiti se qualcuno gli spiegasse che dentro di loro è un germe che potrebbe diventare una favola. E occorre dirlo? – la condizione su cui si fonda l’universalità e la necessità della poesia” (C. Pavese, Il mito, in “Cultura e Realtà”, n.1, maggio-giugno 1950).

Proprio su di lui ho voluto puntare la mia lente d'ingrandimento per studiare la poesia attraverso il mito. Affascinante - e personalmente a pieno condivisibile - è la sua idea che il primo centro e motore di questo meccanismo poetico è l’infanzia/adolescenza, il momento decisivo in cui si costruisce la mitologia personale dell’uomo a partire dalla scoperta del mondo. “Il mito è insomma una norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte, e trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori dal tempo e lo consacra rivelazione”, scrive Pavese nel 1943. 
Più di una poesia della raccolta Lavorare stanca è emblematica di questa tensione. Tra queste è impossibile non citare: Il dio-caprone, i vari Paesaggi, Mito, Una stagione; ma ancora più significativa credo sia Una notte, composta nel 1938, una poesia «di una purezza elegiaca straordinaria.



Ma la notte ventosa, la limpida notte
che il ricordo sfiorava soltanto, è remota,
è un ricordo. Perduta una calma stupita
fatta anch’essa di foglie e di nulla. Non resta,
di quel tempo di là dai ricordi, che un vago
ricordare.

Talvolta ritorna nel giorno
nell’immobile luce del giorno d’estate,
quel remoto stupore.

Per la vuota finestra
il bambino guardava la notte sui colli
freschi e neri, e stupiva di trovarli ammassati:
vaga e limpida immobilità. Fra le foglie
che stormivano al buio, apparivano i colli
dove tutte le cose del giorno, le coste
e le piante e le vigne, eran nitide e morte
e la vita era un’altra, di vento, di cielo,
e di foglie e di nulla.

Talvolta ritorna
nell’immobile calma del giorno il ricordo
di quel vivere assorto, nella luce stupita.



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